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martedì 21 maggio 2013

DIGNITÀ E DIRITTI UMANI Campagna per tre leggi di civiltà: Tortura, Carcere, Droghe

Con una sentenza all’inizio dell’anno la Corte Europea dei Diritti Umani ha condannato l’Italia per trattamenti disumani e degradanti, in relazione allo stato delle carceri. L’Italia ha un anno di tempo per ripristinare le condizioni dello stato di diritto e l’osservanza della Costituzione. Il Presidente Napolitano ha definito il sovraffollamento carcerario una questione di “prepotente urgenza” e di recente ha rivolto l’ennesimo invito perché siano approvate misure strutturali per porre fine alle disumane condizioni delle carceri.
Il sovraffollamento non è una calamità naturale né un mostro invincibile: basta cambiare le leggi criminogene alla radice del fenomeno, prima fra tutte la legge sulla droga. Solo l’anno scorso sono entrate in prigione per violazione della normativa antidroga 28.000 persone (fra consumatori e piccoli spacciatori), mentre sono oltre 15.000 i tossicodipendenti ristretti su un totale di 67.000: la metà dei detenuti ammassati e stipati nelle patrie galere hanno a che fare con la legge sulle droghe. E’ urgente la cancellazione delle norme più deleterie e “affolla-carcere” della legge sulle droghe, al fine di evitare l’arresto agli accusati di detenzione di sostanze stupefacenti per fatti di “lieve entità” e per far uscire i tossicodipendenti e destinarli a programmi alternativi (oggi preclusi da vincoli assurdi e dall’applicazione della legge Cirielli sulla recidiva).
Occorre dare applicazione alle proposte del Consiglio Superiore della Magistratura, in particolare eliminando le norme di tipo emergenziale, dagli automatismi sulla custodia cautelare alla legge Cirielli sulla recidiva, dal reato di clandestinità alle misure di sicurezza e prevedendo un meccanismo di messa alla prova, di misure alternative e di numero chiuso.
Su queste linee sono state elaborate tre proposte di legge di iniziativa popolare, sostenute da un vasto Cartello di organizzazioni e associazioni impegnate sul terreno della giustizia, del carcere e delle droghe: la prima propone l’inserimento nel Codice Penale del reato di tortura secondo la definizione data dalla Convenzione delle Nazioni Unite; la seconda interviene in materia di diritti dei detenuti e di riduzione dell’affollamento penitenziario. La terza si propone di modificare la legge sulle droghe nei punti più odiosi che provocano tanta carcerazione inutile. Sosteniamo le tre proposte di legge e invitiamo tutti e tutte a sottoscriverle.
Il 15 marzo si riunirà il nuovo Parlamento e inizia una legislatura certamente difficile. Ci auguriamo che nell’agenda del nuovo governo siano presenti punti precisi e qualificanti. Fra questi, i temi della giustizia, del carcere, della droga dovrebbero entrare nell’agenda delle priorità. Ci appelliamo con forza al Parlamento perché dedichi subito una sessione speciale all’esame di provvedimenti urgenti per il carcere.
Chiediamo infine la nomina di un ministro della Giustizia capace di rompere le logiche di potere e corporative che hanno fin qui impedito di operare le scelte necessarie e indifferibili. Pretendiamo una netta discontinuità nella responsabilità del Dipartimento delle Politiche Antidroga, che ha perseguito politiche dannose e fallimentari in nome dell’ideologia punitiva e proibizionista.
Le condizioni inumane delle nostre carceri mettono in gioco la credibilità democratica del nostro paese. Noi non intendiamo essere complici, neppure per omissione, dell’illegalità quotidiana. Invitiamo tutti e tutte a fare altrettanto.
Sostenete la campagna “Carcere, droghe e diritti umani” aderendo on line e firmando aibanchetti e alle iniziative le tre leggi di iniziativa popolare.
Associazioni Promotrici: A Buon diritto, Acat Italia, Associazione difensori di Ufficio, A Roma, insieme - Leda Colombini, Antigone, Arci, Associazione Federico Aldrovandi, Associazione nazionale giuristi democratici, Associazione Saman, Bin Italia, Consiglio italiano per i rifugiati - Cir, Cgil, Cgil – Fp, Conferenza nazionale volontariato giustizia, Cnca, Coordinamento dei Garanti dei diritti dei detenuti, Fondazione Giovanni Michelucci, Forum Droghe, Forum per il diritto alla salute in carcere, Giustizia per i Diritti di Cittadinanzattiva Onlus, Gruppo Abele, Gruppo Calamandrana, Il detenuto ignoto, Itaca, Libertà e Giustizia, Medici contro la tortura, Naga, Progetto Diritti, Ristretti Orizzonti, Rete della Conoscenza, Società della Ragione, Società italiana di Psicologia penitenziaria, Unione Camere penali italiane, Vic – Volontari in carcere

venerdì 17 maggio 2013

Chi davvero mette i diversi in gabbia

In occasione della giornata indetta dall'Onu in difesa dei diritti degli omosessuali pubblichiamo il testo integrale di un articolo di Michela Marzano apparso sul Corriere della Sera del 5 maggio scorso.


Chi davvero mette i «diversi» in gabbia

C aro direttore, non si può non reagire di fronte ai problemi che i diritti delle minoranze sembrano porre oggi all'Italia. Dopo le polemiche di ieri, il Presidente Letta ha ritirato le deleghe alle Pari Opportunità alla neo-nominata Michaela Biancofiore, ufficialmente per «mancanza di sobrietà» nelle interviste rilasciate. Ma il problema, ovviamente, non è questo. Il problema è la sostanza delle dichiarazioni della Biancofiore che mostrano bene l'incapacità di una parte del mondo politico italiano di prendere sul serio il tema delle Pari Opportunità. Al punto che è lecito domandarsi se questo problema non rappresenti oggi la questione «divisiva» per eccellenza. In un momento in cui, in Europa, si moltiplicano le leggi capaci di tutelare i diritti di tutti promuovendo l'uguaglianza nella differenza, l'Italia continua a restare l'ultima della classe, costruendo barriere insormontabili tra «noi» e «voi», «bianchi» e «neri», «eterosessuali» e «omosessuali».A pochi giorni dalla giornata mondiale contro l'omofobia (17 maggio), è triste leggere nel suo giornale che per Michaela Biancofiore «ormai gli omosessuali sono una casta, si sono messi in una gabbia, si autodiscriminano». Dichiarazioni del genere non solo portano pregiudizio alle associazioni gay, lesbiche e trans, ma cancellano anche, in poche battute, anni e anni di lotte per il riconoscimento dei diritti di tutte le minoranze. Parlare di «autodiscriminazione», significa non capire tutti gli sforzi e i sacrifici fatti nel corso del Novecento da coloro che, rimasti per secoli nell'ombra, hanno cercato il modo di acquisire visibilità. Non solo gli omosessuali, ma anche le donne, le persone di colore, i disabili. Tutti coloro che, per secoli, sono stati appunto emarginati perché «diversi», e quindi costretti ad organizzarsi in associazioni per la difesa dei propri diritti: rivendicare la propria omosessualità ? ma lo stesso discorso vale per il colore della propria pelle, come ci ha ricordato con coraggio e umiltà Cécile Kyenge ? non significa «mettersi in gabbia», ma chiedere che la propria differenza non comporti né esclusione, né giudizi di valore. Il modo in cui vengono trattate in Italia le Pari Opportunità è sintomatico dell'arretratezza di una parte del nostro Paese. Se si analizza la grammatica del potere, ci si rende infatti perfettamente conto che quest'ultimo si è costruito e consolidato proprio grazie all'assenza di visibilità delle minoranze. L'oscurità ha reso invisibile non solo la verità, ma anche le persone. È per questo che la lotta per farsi vedere e sentire è diventata un aspetto fondamentale della lotta per i diritti da parte delle donne, delle persone di colore, degli omosessuali. È solo quando si rivendica la propria diversità come parte della propria identità che si può uscire dall'afasia e ci si può battere per il riconoscimento dei propri diritti. Dietro queste rivendicazioni, c'è sempre e solo una domanda di riconoscimento e di accettazione della propria identità, delle proprie differenze, delle proprie specificità. Non si tratta di pretendere che le proprie idee e i propri valori siano approvati o condivisi da tutti. Si tratta solo di fare in modo che tutti abbiano il diritto di esprimersi e di rivendicare i propri diritti, senza per questo essere stigmatizzati dall'esclusione.Certo l'Altro, in quanto «altro», disturba e sconcerta. A causa della sua «differenza», l'altro obbliga ognuno di noi a interrogarsi sul ruolo che l'alterità occupa nella nostra vita, e sullo spazio che siamo disposti a darle. L'altro è il contrario dell'ordinario e dell'abituale. È per questo che lo si rifiuta: ci fa paura perché richiama quella «stranezza inquietante» di cui parlava Freud, il fatto cioè che ognuno di noi porti all'interno di sé una parte sconosciuta, una zona d'ombra. Ecco perché le nozioni di «normalità» e «natura» sono spesso state utilizzate per erigere barriere tra «noi» e gli «altri», accusando spesso proprio gli «altri» di «autodiscriminarsi» e «mettersi in una gabbia». Ma non è proprio il fatto di considerare gli «altri» come «altro rispetto a noi» che li costringe a rivendicare per sé dei diritti? Cerchiamo allora di non confondere tutto, invertendo «cause» e «conseguenze». Perché in fondo siamo noi ad avere messo i «diversi» in una gabbia. Non sarebbe allora opportuno che l'Italia fosse capace di avere posizioni europee non solo nel campo economico ma anche in tema di diritti?Filosofa, docente alla Université Paris DescartesRIPRODUZIONE RISERVATA
Marzano Michela
Pagina 33
(05 maggio 2013) - Corriere della Sera