In occasione della giornata indetta dall'Onu in difesa dei diritti degli omosessuali pubblichiamo il testo integrale di un articolo di Michela Marzano apparso sul Corriere della Sera del 5 maggio scorso.
Chi davvero mette i «diversi» in gabbia
C aro direttore, non si può non reagire di fronte ai problemi che i diritti delle minoranze sembrano porre oggi all'Italia. Dopo le polemiche di ieri, il Presidente Letta ha ritirato le deleghe alle Pari Opportunità alla neo-nominata Michaela Biancofiore, ufficialmente per «mancanza di sobrietà» nelle interviste rilasciate. Ma il problema, ovviamente, non è questo. Il problema è la sostanza delle dichiarazioni della Biancofiore che mostrano bene l'incapacità di una parte del mondo politico italiano di prendere sul serio il tema delle Pari Opportunità. Al punto che è lecito domandarsi se questo problema non rappresenti oggi la questione «divisiva» per eccellenza. In un momento in cui, in Europa, si moltiplicano le leggi capaci di tutelare i diritti di tutti promuovendo l'uguaglianza nella differenza, l'Italia continua a restare l'ultima della classe, costruendo barriere insormontabili tra «noi» e «voi», «bianchi» e «neri», «eterosessuali» e «omosessuali».A pochi giorni dalla giornata mondiale contro l'omofobia (17 maggio), è triste leggere nel suo giornale che per Michaela Biancofiore «ormai gli omosessuali sono una casta, si sono messi in una gabbia, si autodiscriminano». Dichiarazioni del genere non solo portano pregiudizio alle associazioni gay, lesbiche e trans, ma cancellano anche, in poche battute, anni e anni di lotte per il riconoscimento dei diritti di tutte le minoranze. Parlare di «autodiscriminazione», significa non capire tutti gli sforzi e i sacrifici fatti nel corso del Novecento da coloro che, rimasti per secoli nell'ombra, hanno cercato il modo di acquisire visibilità. Non solo gli omosessuali, ma anche le donne, le persone di colore, i disabili. Tutti coloro che, per secoli, sono stati appunto emarginati perché «diversi», e quindi costretti ad organizzarsi in associazioni per la difesa dei propri diritti: rivendicare la propria omosessualità ? ma lo stesso discorso vale per il colore della propria pelle, come ci ha ricordato con coraggio e umiltà Cécile Kyenge ? non significa «mettersi in gabbia», ma chiedere che la propria differenza non comporti né esclusione, né giudizi di valore. Il modo in cui vengono trattate in Italia le Pari Opportunità è sintomatico dell'arretratezza di una parte del nostro Paese. Se si analizza la grammatica del potere, ci si rende infatti perfettamente conto che quest'ultimo si è costruito e consolidato proprio grazie all'assenza di visibilità delle minoranze. L'oscurità ha reso invisibile non solo la verità, ma anche le persone. È per questo che la lotta per farsi vedere e sentire è diventata un aspetto fondamentale della lotta per i diritti da parte delle donne, delle persone di colore, degli omosessuali. È solo quando si rivendica la propria diversità come parte della propria identità che si può uscire dall'afasia e ci si può battere per il riconoscimento dei propri diritti. Dietro queste rivendicazioni, c'è sempre e solo una domanda di riconoscimento e di accettazione della propria identità, delle proprie differenze, delle proprie specificità. Non si tratta di pretendere che le proprie idee e i propri valori siano approvati o condivisi da tutti. Si tratta solo di fare in modo che tutti abbiano il diritto di esprimersi e di rivendicare i propri diritti, senza per questo essere stigmatizzati dall'esclusione.Certo l'Altro, in quanto «altro», disturba e sconcerta. A causa della sua «differenza», l'altro obbliga ognuno di noi a interrogarsi sul ruolo che l'alterità occupa nella nostra vita, e sullo spazio che siamo disposti a darle. L'altro è il contrario dell'ordinario e dell'abituale. È per questo che lo si rifiuta: ci fa paura perché richiama quella «stranezza inquietante» di cui parlava Freud, il fatto cioè che ognuno di noi porti all'interno di sé una parte sconosciuta, una zona d'ombra. Ecco perché le nozioni di «normalità» e «natura» sono spesso state utilizzate per erigere barriere tra «noi» e gli «altri», accusando spesso proprio gli «altri» di «autodiscriminarsi» e «mettersi in una gabbia». Ma non è proprio il fatto di considerare gli «altri» come «altro rispetto a noi» che li costringe a rivendicare per sé dei diritti? Cerchiamo allora di non confondere tutto, invertendo «cause» e «conseguenze». Perché in fondo siamo noi ad avere messo i «diversi» in una gabbia. Non sarebbe allora opportuno che l'Italia fosse capace di avere posizioni europee non solo nel campo economico ma anche in tema di diritti?Filosofa, docente alla Université Paris DescartesRIPRODUZIONE RISERVATA
Marzano Michela
Pagina 33
(05 maggio 2013) - Corriere della Sera
(05 maggio 2013) - Corriere della Sera
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